Oggi divago. Pochi fatti, tante parole. Ho letto due cose, una veloce, divertente, diritta al punto, l’altra più seriosa perché esce niente di meno che dall’Harvard Business School e impone di darle la giusta attenzione.
Si tratta di un manifesto che inneggia al riparare gli oggetti e una relazione su uno studio di persone messe ad assemblare mobili Ikea, realizzare origami e giocare con i mattoncini Lego (sì, questa sarebbe quella seria).
Il primo è un documento frutto di Platform21 , piattaforma di design con sede ad Amsterdam, i cui progetti si sono conclusi l’anno scorso. Pur tentata, come tutti, credo, dalla facilità del ricomprare e del sostituire senza pensarci due volte, in realtà provo emozione nel vedere oggetti rattoppati, e ne provo ancora di più nel vedere i gesti assolutamente naturali dei nonni e dei genitori della mia generazione a riparare “perché va ancora bene”. Di questo manifesto (scaricato più di 1 milione di volte) e dei principi che lo ispirano, mi piacciono il contenuto, l’immediatezza, e la descrizione che se ne fa nel sito che lo ospita: “c’è il rischio che molte conoscenze vadano perse se il riparare non torna ad essere un’attività quotidiana – conoscenze che contribuiscono all’indipendenza della persona e che danno piacere. Ciò è strano soprattutto se si pensa all’interesse che c’è in questo periodo per gli altri aspetti della sostenibilità…desideriamo creare maggiore conspevolezza per una mentalità, una cultura e una pratica che fino a non molto tempo fa era parte naturale della nostra vita e della forma e significato che le davamo”.
Il secondo documento , quello più serio, quello dell’Harvard Business School, studia ciò che gli esperti chiamano “effetto IKEA”, ovvero la sovrastima, agli occhi di ciascuno, di ciò che viene creato con le proprie mani. In questo studio appena pubblicato si evidenzia, tra i risultati, che per coloro che le realizzano, le creazioni amatoriali acquisiscono un valore simile a quello che la stessa creazione avrebbe se fosse realizzata da mani esperte. Il valore aggiunto dell’autoproduzione è inoltre elevato non solo per gli appassionati del fai da te, ma anche per gli altri.
Non è una novità che il lavoro manuale sia stato rivalutato. E’ successo perché è più economico, e in tempo di crisi tutto aiuta, perché quando si esagera da una parte è praticamente garantito che prima o poi prenderà il via la tendenza opposta (in questi anni ci manca insomma il contatto con la materia). E’ successo perché in generale c’è una riscoperta delle piccole cose, e l’avventura della vita diventa rendere colorata la propria routine. Chi riesce in questo, chi riesce addirittura a rendere piacevole uno degli incubi più ricorrenti (montare un mobile IKEA), facendoti sentire bene con te stesso ed amare l’oggetto che ora senti ancora più tuo, allora qualcosa da insegnarci ce l’ha.
Quelli che sanno riparare le cose sono diventate persone ricercate, di quelle che ci tieni ad avere come conoscenti, che non si sa mai. E cresce l’offerta di chi queste abilità le ha imparate. Anche nella piccola Mogliano, dove vivo, il meccanico di biciclette che ha riparato diversi danni alla mia due ruote ha ingrandito la propria attività e se vuoi la bicicletta riparata devi rassegnarti ad aspettare un po’ (e mi fa piacere per lui). Ed è nato anche un negozio per piccoli lavori di sartoria, che mi pare sempre pieno di lavoro. Se si pensa che da queste parti da che mondo è mondo ci si rivolge abitualmente alla sartina che riceve a casa, non è poco.
Parliamoci chiaro però; ho fatto il giro largo ma ci arrivo. Riparare è un’azione ad alto contenuto di sostenibilità, molto più del riciclo. E riparare piace. Se ci pensate, è una combinazione vincente. Per i tanti imprenditori che ancora producono qualità, un’idea per offrire prodotti nuovi o adattare prodotti esistenti che possano continuare a vivere, prevedendo ad esempio un kit di rattoppo, corsi di manutenzione, servizi di upgrade del prodotto. Per un oggetto che diventa di più: un portafortuna, una mascotte.