Cosa succederebbe se mettessimo i 69 miliardi di persone che popolano la terra tutte a Parigi, o a New York? Quanta superficie occuperebbero? Si tratta di misurare la densità delle popolazione di queste, e altre città, e trasferirla all’intera umanità. Questo esercizio l’ha fatto l’autore del blog Per Square Mile , che si occupa esclusivamente di densità. Affascinante il tema e la visualizzazione del concetto. L’uso del terreno (land use) è una delle categorie d’impatto considerate in un’analisi di LCA. Spesso non ci si pena, ma l’uso di terreno, inteso come produzione agricola, estrazione mineraria, insediamenti umani e infrastrutture, ha un forte impatto sul suolo, la flora e la fauna, quindi sull’ecosistema. Nella pianificazione del territorio il fattore densità assume quindi un aspetto importante che incide sull’impatto ambientale. Più diffusa è una città, maggiori sono le infrastrutture, maggiori i trasporti, minore lo spazio lasciato a disposizione di attività necessarie per il sostentamento della città (es. attività agricole) o alla natura. Nel 2006 la città di Vancouver, considerata una delle città più vivibili al mondo, ha lanciato l’iniziativa EcoDensity. Nonostante lo scietticismo, le critiche, il timore dei cittadini di vedersi ammassati entro i confini della città, dopo due anni di workshop, incontri, forum, nel 2008 è nato l’EcoDensity Charter, che racchiude i principi fondamentali del progetto e indica come priorità l’allineamento di densità, design e uso del suolo in modo olistco per minimizzare le emissioni di CO2, rendere la città più vivibile, creare alloggi accessibili a tutti.
Nonostnte il meritevole obiettivo, non mi stupisce trovare in rete critiche di persone contrarie al progetto, che temono di vedere tanquilli quartieri caratterizzati da edifici non molto alti trasformarsi in catene di palazzoni o grattacieli. E’ un tema scottante, visto che oltre la metà della popolazione mondiale vive in aree urbanizzate, che nel 2050 sarà il 70%. Un articolo di The Sunday Times sulle città sostenibili così si concludeva: “We can no longer afford to be like Thoreau. If we want to continue to romanticise our natural world, we, as a civilisation, must also avoid it”. Lasciare la natura per preservarla. Non dà, questo, una sensazione di tristezza? E la qualità della vita, in queste mega città, viene essa preservata? Non è la qualità della vita anch’essa indice di sostenibilità? Le città moderne sono sostenibili? Come trovare un equilibrio tra riduzione dell’impatto ambientale e garanzia di una buona qualità di vita? Visto che la tendenza verso la città sembra per il momento inarrestabile, la città stessa dovrà cambiare, reinventando sistemi di approvvigionamento e di autosostentamento, servizi e aree condivise, una nuova mobilità, edifici sostenibili, e nuovi cittadini, che consumano in modo diverso, possedendo meno, utilizzando più servizi che beni e condividendoli. Fantascienza?