I luoghi in-culti di Alessadro Tasinato – Intervista

23 Maggio 2016

Alessandro Tasinato è autore di un’indagine sulla Rabiosa , il fiume che attraversa la Bassa Padovana e ne rappresenta la principale arteria idrografica. Ma è anche un fiume dalla storia complessa e misteriosa dato che, come ci dice l’autore, ha addirittura “perso il suo nome”.

Il lavoro, nato con l’idea di scrivere un saggio ambientale, ha assunto nella veste definitiva la forma di un romanzo o – come lui preferisce definirlo – un’indagine narrativa. In attesa della sua pubblicazione, Alessandro ne parla in un blog dal titolo anch’esso curioso: il culto dei luoghi in-culti . L’abbiamo intervistato.

Alessandro, ci puoi brevemente spiegare cosa sono i luoghi in-culti e raccontarci da dove nasce la tua passione per questi spazi?

In-culti è l’appellativo col quale la Repubblica Serenissima indicava le zone paludose, gli acquitrini, le aree che non erano ancora state destinate all’agricoltura o a forme di utilizzo di tipo economico. A Megliadino, nella Bassa Padovana dove ho vissuto, vi era una specie di pozza che si riempiva e svuotava con le piene e le secche della Rabiosa , il fiume che le scorreva lì accanto scendendo dalle Prealpi e dai Monti Lessini. Era l’ultimo dei luoghi in-culti , un posto sopravvissuto alle bonifiche del Cinquecento e ai pompaggi delle macchine idrovore. Era un luogo che non “serviva a niente”, tranne che ad ospitare me quando andavo a fare birdwatching. Il che – fino a qualche anno fa – capitava praticamente ogni giorno.

Questa mia perseveranza nel frequentare quel posto mi ha permesso di cogliere quanto in realtà quella pozza fosse importante. L’ho vista riempirsi dei reflui che il distretto conciario di Chiampo Arzignano scaricava regolarmente nel fiume. E poi l’ho vista trasformarsi in cantiere quando, più tardi, venne realizzato il tracciato dell’autostrada Valdastico Sud. Insomma, quel luogo che non “serviva a niente”, quel posto “disutile” dal punto di vista economico era un punto di vista privilegiato, un luogo perfetto da cui osservare l’effetto delle politiche che avevano caratterizzato la nostra Regione.

Com’è nata l’idea di ricercare il Rabiosa , che una volta c’era e ora non più?

E’ stato per colpa di una poesia. Un giorno stavo scartabellando in cerca di dati per le mie ricerche sul fiume e mi ritrovo in mano una poesia: l’autore è anonimo (donna, suppongo) ed è dedicata al fiume inquinato. Si intitola: alla Rabiosa . Senti che nome, mi dico. E’ un nome femminile, selvaggio, istintivo, esprime un temperamento senz’altro indomito. Rabiosa non ha niente a che fare con “Fratta” o “Gorzone” che sono i nomi con cui viene comunemente indicato il mio fiume (dico comunemente perché in realtà, procedendo da monte a valle, questo fiume di neanche cento chilometri cambia nome per ben cinque volte).

Allora mi metto a cercare tra le carte catastali del Cinquecento e scopro che il fiume un tempo si chiamava realmente così. Le ultime carte che riportano la dicitura Rabiosa risalgono alla metà del Settecento, poi quel nome scompare per essere spezzettato in un’infinità di nomignoli. Quando ho deciso di scrivere il mio romanzo non ho esitato a chiamare il fiume col suo nome originario: è stato un modo per restituirgli (anzi, restituir- le ) la natura, l’istinto e l’identità unitaria che le sono sempre appartenuti.

Quanto è durato il tuo lavoro e com’è stata condotta la raccolta delle informazioni?

L’idea di scrivere un libro sulla Rabiosa mi è dentro da circa dieci anni. Se guardo all’aspetto documentaristico, quello cioè che rende il mio testo un romanzo storico o – dovrei dire – un romanzo d’inchiesta, si tratta del risultato di una ricerca abnorme, frutto senz’altro di un’ossessione. Ero ossessionato dall’idea di documentare le trasformazioni di cui ero stato testimone diretto.

Gli strumenti che nel frattempo avevo acquisito con la mia laurea in Scienze Ambientali e le prime esperienze lavorative nella valutazione degli impatti ambientali avevano inoltre caricato quest’obbligo di un ulteriore senso di responsabilità, trasformandolo in un vero e proprio imperativo categorico. Con la Provincia di Venezia avevo appena collaborato a un’indagine storica sui cicli produttivi della chimica a Porto Marghera per capire in che modo l’intervento delle leggi e delle innovazioni tecnologiche avevano contribuito a modulare l’impatto delle industrie sull’ambiente. Perché – mi dicevo – non  riproporre un’indagine simile sul mio territorio?

Ho spaziato pertanto su più fronti. Dalle ricerche archivistiche sulle cartografie a quelle urbanistico-territoriali per le quali ho attinto a pubblicazioni di storici locali. Dalle indagini finalizzate a ricostruire la storia produttiva del distretto conciario (per le quali sono state utili riviste di economia e politica industriale, pubblicazioni e testi di laurea sul distretto stesso…) a quelle prettamente tecniche volte a definire le capacità di abbattimento degli impianti di depurazione (per le quali ho utilizzato atti di convegni, memorie e pareri di tecnici esperti). Il tema della qualità delle acque merita un discorso a parte. Dalla fine degli anni novanta infatti l’ARPAV produce regolarmente rapporti di monitoraggio e controllo, documenti che ovviamente hanno costituito anch’essi una fonte preziosa per la mia indagine. Ma per il periodo precedente? Non abbiamo dati o analisi raccolti in modo organico. Da un lato ho quindi fatto ricorso a una rassegna stampa che raccoglie articoli apparsi sui quotidiani locali anche diversi anni fa e che, grazie anche al contributo di comitati e associazioni, era stata negli anni mantenuta aggiornata. Dall’altro sono andato per le case a  intervistare la gente del posto. La memoria tramandata per via orale è estremamente importante. Certo, un ricordo non ha lo stesso valore di un rapporto di campionamento e analisi. Ma fino agli anni Sessanta l’acqua da quella pozza la si beveva. Poi ha iniziato a scendere la schiuma dalle concerie. Non ci sono analisi chimiche che ce lo dicano. Ma quei fatti sono comunque accaduti e a testimoniarlo, oggi, ci sono appunto solo gli articoli sui quotidiani e le voci che mi sono premurato di registrare, per poi riascoltarle, sbobinarle e farle rivivere dentro il mio testo.

La tua ricerca ha la caratteristica di toccare discipline diverse, e questo è anche il suo fascino: tratti aspetti storico-ambientali, linguistici, economici. Ci puoi brevemente descrivere in che modo sono collegati alla tua ricerca su questo fiume?

L’ossessione per la ricerca e la raccolta dei dati mi aveva portato a raccogliere un’enormità di materiale per nulla facile da gestire. I primi tentativi di scrittura mi avevano portato a dei risultati piuttosto asettici, pesanti, assomiglianti sì a una specie di saggio sulla storia e l’ambiente locali ma complessivamente morti. Chi avrebbe mai letto un libro così? – mi chiedevo. Da qui, nel 2009, è maturata la decisione di rivoluzionare il progetto affidando il racconto della Rabiosa a una voce narrante che fosse fresca, vivace, ironica. E così è nato Nino Franzin.

Nino Franzin, il protagonista, ha una storia giovane, contemporanea che si intreccia con quella più antica della Rabiosa. Egli racconta la propria ricerca di un lavoro, la precarietà, il desiderio di emancipazione sociale. Ma c’è anche una donna che ad un certo punto entra nella sua vita, e quindi ciò egli tocca è il tema dei legami, del matrimonio, di una nuova vita che ad un certo punto tenta di nascere. Credo che l’inserimento di questi temi estremamente attuali che scorrono accanto alla storia del fiume abbia contribuito a rendere la mia ricerca più completa, trasformando quello che rischiava di rimanere un saggio relativo a un’area ristretta del nostro Paese in una storia viva, replicabile, dal valore vorrei dire universale.

In che senso?

Ti faccio un esempio. C’è un momento nel romanzo che costituisce un punto di svolta ed è quando nel legame tra Nino e la sua donna viene concepito un embrione. La gravidanza viene gestita all’inizio come normalmente oggi succede a chi si affida agli ospedali, ossia una questione che riguarda un utero, un grembo, una porzione del corpo soltanto. A scardinare questa visione è l’irruzione di una ginecologa (la “ginecologa pazza” – Nino la chiama così) che spiega come il corpo di una donna, per quanto la medicina ci costringa a gestirlo a comparti diversi, sia invece un tutt’uno: quell’utero, quel grembo, quella gravidanza sono legati al corpo intero di quella donna. Inoltre non vanno considerati in modo disgiunto dal suo passato: né da un solo giorno, né da una sola ora, né da un solo minuto che lei abbia vissuto. Questa esperienza insegnerà a Nino a raccontare anche la Rabiosa così, guardandola in modo unitario, complessivo, secondo un approccio integrato.

Per certi versi Nino impara a scardinare la narrazione con cui un certo tipo di linguaggio moderno tenta (apparentemente) di semplificarci la vita. Queste semplificazioni, questo modo che abbiamo imparato di raccontarci la realtà, ci ha portato a una gestione molto individualistica della nostra vita privata. E tuttavia, guardando a una dimensione maggiore di quella domestica, si tratta delle stesse semplificazioni che hanno portato a gestire la cosa pubblica o – se vogliamo chiamarla così – il bene comune in una chiave sempre più privatistica. E questo è quanto è successo per oltre quarant’anni con l’acqua della Rabiosa .

E’ molto interessante il concetto di topografia culturale che citi nel tuo blog. In un presente in cui l’ambiente è sempre più antropizzato, come vedi il futuro, sia ambientale che culturale, dei luoghi in-culti ?

Quando parlo di topografia culturale mi riferisco proprio a questo: a una capacità di trattare le cose con la complessità che richiedono. Nino è un uomo che cresce nel corso del libro, e un po’ alla volta questa capacità riesce a farla propria. Ma il suo è un percorso eretico (come eretica del resto è la “ginecologa pazza” che guarda caso dagli ospedali è stata cacciata). Gli costerà molto caro. Il linguaggio è potere e cambiare linguaggio significa scontrarsi con il potere. E Nino lo fa.

Sono vissuto nella Bassa Padovana più estrema, in un’area che è sempre stata definita depressa alla quale faceva da contrappunto la città, l’urbe, la sede delle istituzioni e della cultura. L’antropizzazione delle campagne ha smussato questo tipo di antitesi. Oggi il territorio metropolitano e una mentalità più globale ci rendono tutti più simili. L’antitesi si è invece spostata su un altro livello: chi si adegua al linguaggio corrente e chi tenta un linguaggio diverso; chi è limitato a una visione superficiale e chi invece prova a capire; chi la complessità la sa gestire e chi invece la sa soltanto banalizzare.

Quale speri sia il futuro della tua ricerca e prevedi degli sviluppi ulteriori di questo progetto?

Si tratta ora di pubblicare il lavoro e di presentarlo al pubblico. E’ una sfida per me e per la casa editrice che accoglierà il mio progetto. Se guardo al romanzo in sé, si tratta di uno spaccato di vita che può essere letto da Bolzano a Catania. Se guardo al suo valore storico ed ambientale ne ipotizzo senz’altro un uso didattico, in particolare nel Veneto. Se guardo infine al suo valore di indagine penso senz’altro a un suo contributo al dibattito pubblico. In questi mesi, si parla molto di Pfas, i perfluoroalchilici che da un’azienda del vicentino hanno contaminato le falde di diversi comuni della Bassa Padovana. Penso che il mio lavoro potrebbe aiutare molti cittadini a costruirsi il giusto contesto per comprendere meglio ciò che è accaduto.

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