La scorsa settimana mi sono slogata la caviglia e per un po’ di giorni il mio andare è stato zoppicante e soprattutto lento. “Che sfortuna”, qualcuno mi ha detto. “Chissà”. Non solo credo fermamente che qualunque “problema” risolvibile non sia realmente un problema, ma in genere credo anche che le cose spesso succedano per un motivo. Mi è venuta in mente una bellissima storia zen che ogni tanto rileggo.
Il contadino saggio
C’era una volta un contadino cinese, era molto povero, per vivere lavorava duramente la terra con l’aiuto di suo figlio, ma possedeva il grande dono della saggezza.
Un giorno il figlio gli disse:
– Padre che disgrazia, il nostro cavallo è scappato dalla stalla!
– Perchè la chiami disgrazia? rispose il padre!
– Aspettiamo e vediamo cosa succederà nel tempo!
Qualche giorno dopo il cavallo ritornò portando con sè una mandria di cavalli selvatici.
– Padre che fortuna! Esclamò questa volta il ragazzo.
Il nostro cavallo ci ha portato una mandria di cavalli selvatici.
– Perchè la chiami fortuna! rispose il padre. Aspettiamo e vediamo cosa succederà nel tempo.
Qualche giorno dopo, il giovane nel tentativo di addomesticare uno dei cavalli, venne disarcionato
e cadde al suolo fratturandosi una gamba.
– Padre che disgrazia, mi sono fratturato una gamba.
Ma anche questa volta il saggio padre sentenziò:
– Perchè la chiami disgrazia? Aspettiamo e vediamo cosa succede nel tempo.
Ma il ragazzo per nulla convinto delle sagge parole del padre, continuava a lamentarsi nel suo letto.
Qualche tempo dopo, passarono per il villaggio gli inviati del re con il compito di reclutare i giovani da inviare in guerra.
Anche la casa del vecchio contadino venne visitata dai soldati reali, ma quando trovarono il giovane a letto, con la gamba immobilizzata, lo lasciarono stare per proseguire il loro cammino.
Qualche tempo dopo scoppiò la guerra e molti giovani morirono nel campo di battaglia, il giovane si salvò a causa della sua gamba zoppa.
Fu così che il giovane capì che non bisogna mai dare per scontato né la disgrazia né la fortuna, ma che bisogna dare tempo al tempo per vedere cosa è bene e cosa è male.
Per via della mia caviglia, per alcuni giorni sono arrivata al lavoro in auto, lasciando a casa il mio mezzo di trasporto preferito, la bicicletta, e nel breve percorso dal parcheggio retrostante la Filanda al nostro ufficio la mia camminata lenta mi ha regalato una prospettiva diversa di questi vecchi affascinanti mattoni. Ma soprattutto mi hanno colpito le porte. La porta ha una dimensione simbolica, in sé racchiude l’idea di separazione e di unione, è soglia che si varca, è apertura a nuove opportunità, chiusura di esperienze o fasi dalle quali ci vogliamo allontanare, ed è passaggio, inteso anche come trasformazione, evoluzione e crescita. Nel loro significato molto concreto, le porte proteggono, e quelle vecchie come quelle della Filanda lo fanno con un’eleganza innata. Così questa settimana, con la caviglia in via di guarigione, non appena il sole ha avuto la meglio sul cielo coperto della prima mattina, mi sono concessa una breve pausa tra questi edifici del 1800 per catturare con la mia macchina fotografica alcune di queste porte.
Vecchie serrature.
Nello spazio che custodiva le carrozze, ora luogo destinato ai piccoli concerti o all’aperitivo che segue gli spettacoli serali.
Dalla scala che porta alla sala grande, dove un tempo si trovavano i macchinari per lavorare i bozzoli.
Il dietro le quinte della sala grande.
Il glicine in fiore e la porta verso la stanza della posta e del book crossing.
Nella stanza della posta.
Nel passaggio verso il portico.
E per concludere, le porte del nostro ufficio.